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Irene Chiti e la passione per il giornalismo tv: «Il mio sogno? Interviste da Belva, tra ironia e verità»

Irene Chiti e la passione per il giornalismo tv: «Il mio sogno? Interviste da Belva, tra ironia e verità»

di Simona Pacini

Con il giornalismo televisivo nel sangue, Irene Chiti, dopo una lunga esperienza negli studi senesi di Canale 3, riesce ad arrivare negli studi della Abc al Rockefeller Center di New York e a farsi accreditare perfino a una serata degli Oscar. Con il marito, con il quale condivide la passione per gli Stati Uniti, ha avviato un business di salumi artigianali toscani in Virginia e ormai divide la sua vita tra l’Italia e l’America, dove ha trovato il modo anche di portare avanti l’attività giornalistica.

Chi è Irene?

Sono nata e cresciuta a Poggibonsi, ho studiato a Siena e mi sono laureata in Scienze Politiche. Sempre a Siena ho iniziato a lavorare, per puro caso, a Canale 3, una tv locale che in occasione del Palio ospita molti personaggi. Fui accolta da Franco Masoni, storico direttore, in una delle trasmissioni serali dove in realtà ero testimonial per la Tim. Era stato creato un gioco telefonico sulla storia del Palio e io premiavo i telespettatori in diretta. Fui notata per la spontaneità con cui, allora solo diciottenne, riuscivo a stare davanti alla telecamera e parlare un italiano che non risentisse delle inflessioni toscane.

Mi chiesero subito di condurre una trasmissione l'inverno successivo e io accettai pur non avendo la minima idea di cosa significasse fare un'intervista per la Tv né tantomeno un servizio giornalistico per il Tg. Ma imparai velocemente, grazie alla gavetta e ai professionisti della Rai con cui Canale 3 collaborava all'epoca per i servizi di corrispondenza. Questa mia indole per il telegiornale in realtà era già venuta fuori alle medie quando mi era stato chiesto di condurre il Tg della scuola. La predisposizione a raccontare e presentare ha sempre fatto parte di me. A Canale 3 sono rimasta poi per oltre 20 anni, passando per esperienze diverse da un ufficio stampa a livello regionale, a corrispondente per Toscanamedianews fino ad arrivare alla direzione di Gazzetta di Siena tre anni fa. Esperienza molto bella e gratificante che si è conclusa dopo che è nata la mia seconda figlia.

Infatti ad un certo punto della tua vita hai preferito privilegiare la famiglia rispetto all’attività giornalistica. Ne sei felice o hai qualche rimpianto?

Dopo la Laurea, anche se già lavoravo quasi a tempo pieno per Canale 3, sarei voluta partire per Roma o Milano inseguendo il sogno di lavorare in una tv nazionale. Purtroppo ho dovuto fare i conti con dei problemi di salute e sono rimasta a Siena. Dopo mi sono sposata e ho avuto la mia prima bambina. La mia vita ormai era qua in Toscana ma con mio marito, con il quale condivido la passione per gli Stati Uniti, abbiamo deciso di aprire un business in Virginia.

Irene Chiti

La sua azienda produce salumi artigianali da ben cinque generazioni e noi abbiamo provato a mettere in piedi il primo vero stabilimento a produzione artigianale toscana in America. In un certo senso quindi, più che privilegiare la famiglia ho provato a privilegiare il business di famiglia. Dopo dieci anni mio marito è riuscito a mettere all'attivo ben due stabilimenti produttivi e io ne sono molto orgogliosa.

In parallelo sono riuscita comunque a portare avanti la mia attività giornalistica dividendomi tra programmi in tv per Canale 3 e gli impegni del business e della famiglia, che sta un po’ in America e un po’ in Italia. Sono felice di questa scelta perché mi permette di godere delle cose buone che ci sono in entrambi i paesi senza dovermi sentire obbligata a scegliere. In più questa soluzione mi fa vedere una prospettiva dinamica, fatta di nuovi stimoli. Ovvio che non è sempre facile, anche perché io e mio marito stiamo lontani per periodi abbastanza lunghi, soprattutto adesso che la figlia più grande va a scuola. Rimpianti? Non troppi, anche se a volte mi domando come sarebbe stato lavorare al Tg5.

L’apertura di nuove strade Oltreoceano comprende anche l’attività giornalistica?

Con mio marito ci siamo creati un'opportunità per uscire dalla sedentarietà e dalla pesantezza che si respira in Italia. Noi siamo curiosi di viaggiare e di scoprire, pur rispettosi e affezionati alle nostre tradizioni. Da noi studi una vita per realizzarti e diventare ciò che vuoi ma è come se ti inculcassero l'idea che è ‘meglio volare basso’. Non c'è spazio per diventare ciò che si vuole, meglio accontentarsi di qualcosa di meno e rinunciare ai sogni per un lavoro qualsiasi, tanto sai già che il lavoro o non lo trovi o non ti pagheranno abbastanza. A noi stava stretta questa idea e ci siamo lanciati nel Far West creando le condizioni per il nostro piano B.

Nel 2013, ero sposata da poco, ho frequentato un internship alla stazione televisiva Abc di New York. Ho scritto direttamente alla direzione chiedendo la possibilità di uno stage e loro mi hanno risposto accogliendo la mia richiesta. Sono stata 3 mesi a Manhattan da sola. NY è il massimo per chi sogna il giornalismo televisivo. Tutti i giorni mi svegliavo per andare negli studi della Abc al Rockfeller Center dove avevo la possibilità di vedere centinaia di monitor, telecamere, pc di montaggio video, studi hollywoodiani per la registrazione dei talk show mattutini più famosi d'America. Ero nel cuore pulsante della Tv, mi pareva di essere in un sogno.

E poi le dirette del Good Morning America a Times Square, in pratica facevo l'assistente dell'assistente del produttore Norman Lear, tenevo in mano le fotocopie dei testi della trasmissione, nulla di più, ma solo stare a guardare quella macchina così perfettamente congegnata in quel mix di intrattenimento e informazione per me era da sballo.

Ci racconti qualcosa in più di questa esperienza americana? Hai delle collaborazioni attive? Come riesci a portarle avanti per pochi mesi all’anno?

Conoscendo e frequentando persone ho avuto la possibilità di lavorare in Usa soprattutto curando eventi nel settore food. Diciamo che ho unito l'utile al dilettevole, per far combaciare la mia attitudine alle esigenze del business di famiglia. Quindi prima ho curato l'immagine dell'azienda di mio marito, poi ho collaborato con altre per eventi culturali promossi dall'ambasciata italiana a Washington. Non è semplice perché la mia vita adesso è per la maggior parte in Italia, ma coltivare i contatti e potersi occupare di eventi sporadici mi permette comunque di continuare a mantenere questo legame con gli Stati Uniti. Magari se un domani volessi trasferirmi in modo permanente là avrei comunque dei contatti lavorativi da poter sviluppare.

Quali sono secondo te le differenze più grandi nell’eseguire lo stesso tipo di attività professionale in Italia e negli Stati Uniti?

Fare il giornalista è complicato, diciamoci la verità. La grande differenza, a mio modo di vedere, è che negli Stati Uniti dopo un periodo di studio dedicato, dopo una formazione idonea per ciò che vuoi fare, dopo la gavetta, dopo gli stage non retribuiti… arriva il lavoro vero e proprio. In Italia sembra che lo stage non finisca mai. La maggior parte di noi viene pagato quanto un ragazzo che inizia la professione ora, senza nessun titolo… anzi a volte i ragazzi più giovani senza esperienza sono privilegiati dagli editori perché a costo di entrare nel mondo del giornalismo accettano di essere sottopagati, a volte non pagati affatto.

Questo per quanto riguarda il riconoscimento vero e proprio della professione, per quanto concerne invece il tipo di attività, se mi riferisco al settore tv, in America è tutto più spettacolarizzato, tutto più live, tutto più emozionale. Il racconto è meno tecnico, meno obiettivo e con il taglio di un occhio indiscreto sui fatti che accadono. E questo non so se è un bene. Diciamo che le news sono sicuramente più accattivanti ma ci si sostituisce forse di più al telespettatore offrendo già un'idea dei fatti. Le Tv sono molto più schierate e questo deontologicamente non la trovo una cosa buona per la professione. Già i social rendono questa spettacolarizzazione continua delle news come normalità, i giornali dovrebbero forse avere più filtri in questo senso.

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Irene Chiti con Alessandro Meluzzi

Rispetto alla pessima situazione italiana dal punto di vista retributivo, economicamente gli Stati Uniti riconoscono una maggiore importanza al lavoro giornalistico?

Senza dubbio. Si chiama lavoro perché viene pagato. La gavetta deve durare il tempo necessario alla formazione, poi deve finire, non ci si può approfittare. Sta anche a noi giornalisti imporci su questo, a costo di risultare scomodi o antipatici perché chiediamo la giusta retribuzione per una prestazione professionale.

Immagino che avrai qualche aneddoto da raccontare…

Quando ho partecipato alla Notte degli Oscar nel 2016 come giornalista accreditata. Grazie all'internship alla Abc ho avuto modo di essere presente alla cerimonia di premiazione. Ho visto sfilare sul red carpet gli attori di Hollywood. In quell’occasione Leonardo Di Caprio ha preso l'Oscar ma, nonostante fosse il mio grande crash adolescenziale, dal vivo non m'è sembrato questo granché.

Qual è il sogno che ancora devi realizzare?

Dopo questa bella intervista direi sicuramente la conduzione di un talk show su una rete nazionale. Un programma con un taglio fresco e divertente come Belve di Francesca Fagnani, dove l'intervistato si racconta tra ironia e verità, anche scomode. Mi intriga l'idea di mettere l’intervistato a proprio agio e a nudo allo stesso tempo. Sì, sarebbe decisamente questo il sogno da realizzare… magari un giorno chissà, tra Siena e New York, riuscirò a trasferirmi davvero a Roma per realizzarlo!.

L'articolo fa parte della nostra rubrica Ri-Tratti personaggi da conoscere, curata da Simona Pacini

 

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